The show goes on

La principessa con gli occhiali

« Older   Newer »
  Share  
MrsBadGuy
view post Posted on 19/6/2008, 16:40




Un'altra storia originale...
Una storia piccina, che parla principalmente di crescita.
Spero vi piaccia!



La Principessa con gli Occhiali
Di Mrs Bad Guy


Note: Scritta il 29 Settembre 2007, in un pomeriggio. Dopo aver visto un’immagine. Con la musica di Damien Rice nelle orecchie. Vi consiglio Amie e Cold Water. Sono i testi che più mi hanno ispirata.
Riassunto: Una ragazza che cerca se stessa
Feedback: piacevolissimo "[email protected]"



Come si comincia a scrivere una storia? Una storia personale?
Io odio le autobiografie. Sono insulse.
Questa non è un’autobiografia.
E’ uno stralcio di vita. E’ uno stralcio di cuore.
Un pezzo di me che sento il bisogno di segnare sulla carta, nero su bianco, pagina dopo pagina. Con parole legate solo dalla verità. Per avere la certezza che sia stato tutto vero.

Sono sempre stata una persona forte, decisa, razionale.
Una di quelle bambine che picchiavano i bulletti, che tornava a casa con le ginocchia sbucciate ed un occhio nero. Mia madre mi chiamava Maddy il maschiaccio.
Ma io ero solo eccessivamente vispa. Sempre pronta a definire posizioni, ruoli, regole. Ero un leader. Pronta a vivere e combattere da sola.
Al liceo mi confondevo con le ragazze alternative, che vestivano con larghi maglioni, i libri tenuti nelle braccia, una lunga borsa in tela che conteneva sigarette, penne e fogli di pensieri sparsi. Ed altri libri. Gli occhialini, le trecce. La posizione politica già ben definita.
Andavo d’accordo con i ragazzi. Ero la tipica amica con cui si poteva parlare di tutto. Dalla situazione politica nei paesi dell’est Europa, alla partita della Juve della domenica prima. Mi interessavo a tutto, volevo sempre avere la mia da dire.
Le ragazze mi odiavano.
Io non ero fashion, non mettevo le minigonne, le lenti a contatto ed il rossetto, io pensavo.
Le odiavo tutte, inutile dirlo. Anzi, forse nemmeno le odiavo. Non entravano semplicemente nella mia ottica. Non esistevano.
A me bastavano i miei gatti, la musica ed i quotidiani, i libri, e le chiacchierate con Nancy, la mia unica amica. Quella d’infanzia.
All’università non avevo ancora avuto un ragazzo stabile.
Ero uscita con dei… tipi. Insipidi.
Nessuno riusciva davvero ad interessarmi.
I ragazzi della mia età mi sembravano tutti senza pensiero, senza forma, quasi senza vita.
Io ero sempre stata una bella ragazza, con scuri occhi a mandorla e forme giuste.
Nonostante il mio difficile carattere, mi stavano sempre intorno in molti.
Non che non mi facesse piacere, sarei ipocrita nel dire una cosa del genere.
L’essere desiderata aumenta l’autostima.
Ma a volte ero sopraffatta dall’ansia. Mi chiedevo se fosse tutto lì.
Ero io ad essere troppo selettiva? Cercavo forse un mio clone maschile? E cosa ci sarebbe stato di bello in un’altra me? Cosa, davvero, avrei considerato importante tanto da destare la mia attenzione?
Non chiedevo molto, volevo solo trovare qualcuno che spronasse le mie sinapsi, che risvegliasse dei sentimenti che in me sembravano sopiti.
Com’è che diceva quel film? Danzare come un derviscio?
Ecco, io, dietro quegli occhiali, quelle trecce e quelle magliette enormi, volevo solo danzare come un derviscio.
Nancy non faceva che tirarmi le orecchie.
“Tu sei così bella, che potresti averli tutti ai tuoi piedi. Metti una maglia attillata, sciogli i capelli, alza lo sguardo dai tuoi libri e guardati intorno. Quello che sceglierai cadrà ai tuoi piedi!”
Ma io mi chiedevo semplicemente a cosa servisse.
Perché dovevo cambiare me stessa? A cosa serviva fare gli occhi dolci al mondo, se quel mondo non mi apparteneva?
Certo, volevo provare, almeno una volta, ad amare. Ma poi pensavo che nella vita c’erano milioni di altre cose da fare.
Studiare, prendere la laurea in giornalismo, fare un corso di fotografia, scrivere un libro, vedere la barriera corallina, continuare gli studi in pianoforte.
Perché crucciarsi per qualcosa che mancava?
In fondo, per l’amore, non bisogna cercare. Tutti dicono che prima o poi arriva, ed io volevo aspettare. Nel frattempo, avrei vissuto la vita come mi andava di viverla.
C’era la mia posizione. Questo bastava, una posizione.

Avevo ventitre anni quando mi accorsi che non era per niente così, che stavo sbagliando tutto.
Avevo letto un libro, consigliato da Nancy.
Una storia d’amore. La prima storia d’amore che leggessi in tutta la mia vita. Di una tristezza inaudita.
La protagonista moriva proprio quando aveva trovato la sua anima gemella.
Patetica, ma era scritta così bene, di una profondità così sconcertante…
Lo lessi in un giorno, trecento e passa pagine. Poi andai da Nancy e, piangendo, le restituii il libro, dicendole che non avrei mai più preso consigli da lei.
“Sai perché te l’ho fatto leggere? Per farti capire che non bisogna solo aspettare, bisogna anche agire. Tu aspetti che qualcosa venga da te, ma come potrà trovarti se tu sei immersa nei libri?”
Rimanemmo a parlare tutta la serata.
Il giorno dopo mi accompagnò in centro e comprare un po’ di roba.
Una gonna, tre camicie di diversi colori, due pantaloni aderentissimi. Due paia di scarpe col tacco.
Ero imbarazzatissima.
Però Nancy aveva saputo prendermi, me l’aveva posta come una sfida.
Ed io non avevo mai rinunciato alle sfide.
“Hai ventitre anni e non hai mai passato un sabato sera in discoteca. Però hai una laurea presa in tempi record. Non pensi sia il momento di metterti alla prova con nuove cose?”

Quel sabato andammo in un locale. Non che fosse la prima volta che ci andassi, ma era la prima volta che uscivo vestita in quel modo. Con le scarpe col tacco ed una camicia aderente. Non avendo avuto la forza di indossare una gonna (mi sembravo un pagliaccio travestito), optai per i pantaloni aderenti.
I capelli sciolti, via gli occhiali. Solo un po’ di mascara. Nient’altro.
Nancy mi aveva guardata con la gioia negli occhi. Diceva che ero bellissima.
Si, è vero. Lo ero.
Però non mi sentivo me stessa. Era questo in fondo, il mondo degli adulti? Truccarsi da estranei per sembrare più veri ed interessanti?
Era tutto così imbarazzante ed irreale.
Mio padre, prima di morire per un tumore al pancreas, mi aveva sempre insegnato ad essere me stessa. Lui era il tipico signore antipatico a tutti, perché diceva le cose senza peli sulla lingua, facendosi anche odiare. Io lo amavo all’inverosimile proprio per questo. Sicuramente lui, guardandosi allo specchio, non aveva mai visto nient’altro che se stesso.
Alla fine non fu una serata così tremenda. Tre ragazzi si erano uniti al nostro tavolo, ed avevamo parlato per tutta la serata di tante cose.
“Allora, c’è qualcuno che ti piace, dei tre?” mi aveva chiesto Nancy mentre tornavamo a casa.
Io non seppi cosa rispondere. Non mi ero posta minimamente la domanda.
Perché avrei dovuto? Bisognava dare un giudizio a tutti i ragazzi che si incontravano nel proprio campo visivo?
La settimana dopo Nancy mi portò in un bellissimo posto, consigliato da un suo amico più grande.
Era una villa enorme, con un giardino incolto tutto intorno. All’interno si stava benissimo, tutti seduti su comodi divanetti, a bere e discutere.
Quella sera cominciai a chiedere a me stessa dei giudizi su ogni ragazzo che si presentava.
Carino.
Stupido.
Deficiente.
Simpatico.
Nerd.
Deficiente.
Pieno di sé.
Deficiente.
L’assiduità dei commenti negativi mi faceva persino paura.
Verso il tardi però, quando noi eravamo lì già da un bel po’, si presentò un ragazzo che mi colpì più degli altri.
Cominciò a parlare con il Deficiente n° 2, e di tanto in tanto sorridevano insieme.
Andò via, tornò dopo un po’. Parlava con il carino n° 1 ora. Sorrideva di nuovo.
Aveva un sorriso bellissimo.
Ma non ci rivolse la parola per tutta la serata, scomparendo e riapparendo di tanto in tanto.
Al ritorno dissi a Nancy che quel tipo mi aveva molto colpito, soprattutto per il fatto di non essersi comportato da cascamorto con noi, come avevano fatto i suoi amici.
La sera dopo lei mi portò di nuovo a quel locale. Ad un tavolo ci aspettavano lo sconosciuto ed il simpatico.
Davide e Giuliano.
Odiai profondamente Nancy, sentendomi tremendamente in imbarazzo.
Giuliano era un ragazzo sinceramente simpatico. Mi piaceva, riusciva a farmi ridere di gusto, cosa poco facile. Era un ragazzo con cui si poteva parlare di varie cose, senza avere paura che lui ti guardasse come un’aliena.
A Nancy piaceva più del dovuto, si vedeva da come gli faceva gli occhi dolci, da come metteva in mostra la scollatura, da come sorrideva.
Io continuavo a sentirmi una marziana.
Ma per conquistare qualcuno avrei dovuto anche io sorridere in quel modo ebete?
Davide parlò pochissimo per tutta la serata. E mi guardò altrettanto poco.
Rideva col suo amico, diceva ogni tanto la sua, si alzava continuamente per salutare qualcuno.
Cominciai a chiedermi se mi piacesse.
Si, mi piaceva.
Soprattutto perché non mi faceva il filo, pensai.
Non era come gli altri, non mi mangiava con gli occhi. Non cercava a tutti costi un mio sguardo, una mia parola, un mio consenso.
Sicuramente per poco interesse nei miei confronti, ma questo mi faceva comunque piacere. Mi animava.
Cominciai segretamente a domandarmi tante cose, avrei voluto conoscere la sua idea sugli argomenti che da anni mi stavano a cuore, sapere quale fosse la sua storia, quali fossero le sue passioni. Quali i suoi sogni.
Ero incuriosita. Piacevolmente incuriosita.
Alla fine della serata, scoprii che Nancy lo odiava. Per gli stessi motivi per cui a me piaceva.
Qualche sera dopo la mia amica mi chiamò in preda all’ansia.
“Davide vuole vederti, vuole uscire con te, da solo!”
Fui presa da un attacco di panico. Cosa? Perché? Come?

Nancy aveva continuato a vedere Giuliano. E Davide, attraverso il passaparola era arrivato a chiedere a me di uscire.
Mi chiesi ad alta voce perché non avesse chiesto il mio numero di telefono.
“Me lo sono chiesto anche io. Perché gli sembrava sconveniente avere il tuo numero senza il tuo permesso. Testuali parole.”
Rimasi esterrefatta. Che fosse lui quello giusto? Quello che mi avrebbe risvegliata? Quello che mi avrebbe accompagnata in una spirale di piacere e dolore?
Acconsentii all’uscita.
Al solito posto.
Chiesi a Nancy di starne fuori, di non correre in mio aiuto portandomi trucchi e ciglia finte, non ne avevo bisogno.
Lei mi promise a malincuore di starne fuori, chiedendomi però di indossare almeno quella gonna.
Le dissi di si, senza però mantenere la promessa.
Non sarei stata a mio agio, e già la paura era tanta.

Fu una serata deliziosa.
Lui era un ragazzo interessante, sicuramente più grande di me.
Aveva gli occhi così scuri che quasi facevano paura, spalle larghe, mani forti, la voce profonda, le idee chiare.
Era un uomo, non il solito ragazzino insicuro.
E quella sera mi guardava profondamente, facendomi spesso arrossire dall’imbarazzo.
Cosa che per me era decisamente una novità.
Quando mi alzai per andare in bagno sentii il suo sguardo sul mio corpo, e questo mi eccitò paurosamente. Alzando il mio imbarazzo a livelli altissimi.
Imbarazzo, paura, eccitazione, curiosità. Leggevo tutto questo e altro ancora nel mio viso, mentre mi guardavo allo specchio di quella toilette anonima.
Ero io quella ragazza dai lunghi capelli ondulati, con gli occhi grandi color nocciola e le guance arrossate?
Ero io, quella?
Uscii dal bagno tremando. Avevo paura. Una tremenda paura.
Sentii solo la sua mano, che mi tirò verso la parete. Mi spinse contro e mi baciò, a lungo, tenendo le mani sul muro, come ad ostacolare una mia fuga. Mi baciava con impeto, passione. Io mi strinsi alla sue spalle, marmoree come le avevo immaginate.
“Torniamo a sederci. Potrei perdere il controllo. Qui, adesso.”
Mi prese per mano e mi riaccompagnò al tavolo.
Ed io, confusa, pensavo che se avesse perso il controllo io l’avrei seguito.
Mi sarei persa con lui.
Una volta seduti mi sorpresi della mia rapidità nel cominciare un’altra chiacchierata, che ci accompagnò fino a tardi.
In macchina, vicino casa, nascosti da una grande albero, ci baciammo ancora. Lui mi prese cavalcioni su di se, tenendomi stretta. Mi sorprendevo di me, della foga con cui cercavo la sua lingua, dell’eccitazione che sentivo nascere dentro, sentendolo fra le mie gambe.
Quando rientrai mi guardai ancora allo specchio.
Non mi ero mai sembrata così piccola. Come uno scricciolo impaurito.
Impaurito da me, da lui, dalla possibilità di perdermi, dalla certezza che non sarei più tornata la maschiaccia di un tempo, se avessi provato ad amarlo. La paura di scoprirmi diversa, per colpa di un uomo che nemmeno conoscevo.
Quella notte mi chiamò, mi disse che non riusciva a prendere sonno. Che continuava a pensarmi.
Mentre parlavamo, gli chiesi all’improvviso cosa gli piacesse di me.
“Sei interessante, come nascosta sotto qualcosa. Sembri una naif, in realtà, secondo me, sei solo un po’ fuori dal mondo.”
Gli dissi ridendo che cercavo la strada per rientrarci in questo mondo, semmai ci ero stata davvero.
“Potrei guidarti io. Anche se non ti assicuro che potrebbe piacerti viverci.”
Fu in quel momento che decisi che si, ne valeva la pena.
Cambiare per viverlo. Vivere quella storia, vivere quell’uomo.

Ci rivedemmo la sera dopo, e quella dopo ancora. Dopo quattro giorni mi portò in un albergo.
Facemmo l’amore.
Non era la mia prima volta, la mia verginità se l’era portata via qualche anno prima un ragazzo conosciuto al liceo.
Un ragazzo dolce ed intelligente, che mi amava alla follia. Non eravamo mai stati ufficialmente insieme, ma uscivamo spesso.
Avevo deciso di farlo con lui perché gli volevo sinceramente bene. Niente amore, in fondo.
Davide però si stava portando via qualcosa di ben più importante.
La verginità dei miei sentimenti, il mio cuore duro da scalfire, lucido e pulito, i miei occhi che non avevano mai pianto dalla gioia di avere qualcuno a fianco, le mie mani che non avevano mai tremato per nessuno, la mia voce che non aveva mia invocato nessun nome, come invocava il suo.
Si portava via tutto questo, e non mi sembrava poco.
Dopo aver fatto l’amore, restammo abbracciati a lungo. Ci raccontammo le nostre vite, come non avevamo ancora fatto.
Lui aveva ventinove anni, era un semplice operaio, e viveva a Berna, in Svizzera. A chilometri di distanza da me. Era in vacanza da suo cugino, per il momento. Due settimane, di cui una già andata.
Non mi crucciai nella disperazione, sapevo che lui non era delle mie parti. Si capiva dall’accento.
Io gli raccontai di me, delle mie innumerevoli passioni, della laurea presa in breve tempo, delle domande di tirocinio nelle redazioni di alcuni quotidiani, dell’attesa per risposte che non arrivavano, del mio passato da ragazza esclusa, del mio sentirmi inappropriata in una gonna.
Lui rise, tante volte. Era bellissimo mentre rideva.
“A volte ho paura di perdermi, di non ricordarmi più chi sono.” Gli dissi, in preda alla sincerità.
Lui prese i miei occhiali, che portavo sempre in borsa. Me li mise sul naso, e mi guardò con dolcezza.
“Tu sei una principessa. Anche con gli occhiali e i maglioni larghi, non smetti di essere bella e vera. Non sei tu a dover cambiare, deve cambiare la tua visione degli altri. Sei una principessa, e così resti. Una principessa con gli occhiali resta comunque una principessa.”

Il giorno dopo Davide non si fece sentire. Io continuavo a sentire nelle orecchie la sua voce, le sue parole.
A cosa serviva cambiare me stessa per farmi piacere il mondo?
Anche con quella certezza, mi sentivo comunque diversa. Stavo amando. Stavo danzando come un derviscio.
E questo ti cambia, intimamente.

Il giorno dopo, Davide continuava a non farsi sentire. Avevo cercato di chiamarlo, più volte. Ma niente.
Mi mandò un messaggio, alle dieci di quella sera, dicendomi che era sotto casa mia. Che doveva parlarmi.
Scesi in fretta. Avevo paura. Tremavo. Soprattutto per la voglia di vederlo.
Appena fui entrata in macchina lo abbracciai forte, ma sentii subito che c’era qualcosa che non andava.
Lui mi guardò, sorridendo. Mi accarezzò il viso. Aveva gli occhi lucidi, e sentivo le sue mani fredde. Più del normale.
Gli presi una mano nella mia, chiedendogli cosa fosse successo, ed allora la vidi.
Lì, all’anulare sinistro. Dorata e sottile. Tondeggiante. Impossibile sbagliarsi.
Una fede.
Bruciò i miei occhi come un fulmine. Cominciai a piangere, senza riuscire a trattenermi.
Misi una mano davanti alla bocca.
Quando? Quando era apparsa quella fede? Dov’era nascosta mentre mi baciava con foga, mentre facevamo l’amore, mentre mi diceva che voleva portarmi nel mondo, mentre mi chiamava principessa?
“Ti ho chiamata perché volevo spiegarti”. Disse, con gli occhi lucidi.
Io fui come frustata dalla sua voce. No, non volevo sentirlo. Se lui parlava, voleva dire che era reale.
Non poteva esserlo.
Corsi via dalla macchina.
Corsi via da quella verità.
Corsi via da lui.
Con le guance bagnate, il viso sconvolto, le mani che tremavano, le gambe che si muovevano velocemente solo per inerzia. Il mio cuore frantumato, sporcato da lacrime e bugie.

Quella notte, ancora in lacrime, mi rinchiusi in bagno.
Mi guardai allo specchio.
Cosa era successo? Avevo amato. Avevo danzato come un derviscio. Avevo tremato per lui.
Ed ora? Ora cosa ne restava?
Questa ragazza sconvolta, tradita, insultata da mille bugie. Una storia di pochi giorni era bastata a tirarmi addosso il mondo intero, quel mondo a cui avevo aspirato. Ed ora cosa restava della ragazza dai molti ideali, la ragazza incompresa dagli altri, che stava bene solo con i suoi gatti e i suoi progetti, la ragazza che stava bene con se stessa ed aspettava l’amore?
Cosa era rimasto ora, di me?
Avevi ragione papà. Dovevo solo essere me stessa.
Se quella sera avessi avuto il mio maglione lilla, gli occhiali e le trecce. Se non mi fossi mai chiesta cosa ne pensavo di lui. Se gli avessi risposto stizzita quando mi aveva chiesto di uscire. Se fossi stata me stessa, lui non mi avrebbe notata. Io non lo avrei notato.
Ed ora avrei ancora la mia dignità, ed il mio cuore intatto e pulito.
Ma una principessa con gli occhiali resta comunque una principessa.
Mi aggrappai al lavello, mentre l’acqua che doveva lavarmi via il dolore continuava a scorrere. Mi aggrappai e piansi stringendo i denti. Li stringevo forte, combattendo l’istinto di urlare.
Li stringevo forte, per non sentire il dolore al petto. Per non farmi uccidere da esso.

Il giorno dopo tornai a nascondermi dietro gli occhiali ed il maglione largo.
Volevo tornare quella di una volta, volevo cancellare l’ultima settimana.
Una settimana. Da una settimana nel mondo, e già mi ero persa.
Nessuno, nessuno mi stava guidando. Ero sola.
E spaventata.
Non raccontai nulla nemmeno a Nancy.
“E’ finita. E facciamo finta che non sia mai successo.”
Lei non mi chiese niente.
La vita continuò liscia per altri quattro giorni.
Poi, una sera, mentre ero a casa di Nancy per guardare un film, lui mi chiamò.
“Ti prego, voglio solo parlati prima di partire”
Chiusi il telefono di scatto, senza la forza di sentire altro.
Guardai Nancy, col terrore negli occhi. E scoppiai a piangere ancora, abbracciandola forte. Lei mi accarezzava i capelli, mi diceva di stare tranquilla, mi chiedeva perché, cosa mi avesse fatto. E le raccontai, le raccontai della fede.
“Io… mi sento una stupida, una sciocca. Sono stata usata da un uomo sposato. Come una stupida liceale. Mi sono fidata, gli ho aperto il mio cuore, mi sono innamorata….”
Nancy mi guardò con sguardo colpevole, si sentiva in colpa perché era stato grazie a lei che l’avevo conosciuto. Ma l’unica stupida ero stata io. La stupida che si era fatta usare.
“Maddy io… penso che dovresti parlare con lui.”
Le dissi che era pazza, che non poteva capire. Che ero stata ferita nell’orgoglio. Che non potevo e non volevo sentire la sua voce e le sue scuse.
Non le dissi che avevo paura di non farcela. Di non reggere.
Ma quella notte continuai a pensare alle parole della mia amica.
“Se fosse stato tutto così semplice non ti avrebbe detto nulla, sarebbe tornato a casa sua senza dirti che era sposato. Invece ti ha voluto dire la verità, e nonostante la tua reazione, ti cerca ancora.”

La sera dopo gli mandai un messaggio. Se voleva parlarmi, lo aspettavo sotto casa.
Arrivò dopo quindici minuti.
Vederlo, faceva un male insopportabile. Fisico. Era persino più bello di quello che ricordavo.
Non parlai. Mi sedetti in macchina con gli occhi fissi nel vuoto di fronte a me. Speravo di riuscirci, di riuscire a sentire la sua voce senza crollare davanti a lui.
“Maddy…”
E fu più dura di quello che pensavo. Gli occhi ancora fissi, immobili nel vuoto, cominciarono a tradirmi, maledetti disertori.
“Ok. Parlerò solo io. Mi dispiace. Non ti ho detto tutta la verità, mi dispiace, e voglio rimediare. Sono sposato da tre anni. Ho sempre amato mia moglie. Abbiamo un figlio di venti mesi. Un bellissimo ometto. Avevo una vita perfetta. Fino a sette mesi fa. Stefania, mia moglie, è malata. Potrebbe morire fra un anno, o operarsi col rischio di restare paralizzata. Io sono… terrorizzato. Non voglio giustificarmi per quello che ho fatto. Ma … sono terrorizzato, Maddy. Rischio di restare solo con un bambino piccolo, o solo con un bambino piccolo ed una paraplegica. Non so… non so cosa sperare. Vorrei scappare… Mi sono preso queste due settimane di ferie, mentre lei sta da sua madre. Era come se volessi cancellare tutto. Ricominciare la mia vita da zero. Sono un codardo, lo so. Poi quella sera ti ho vista, eri così estranea a tutto. Così eterea e superiore. Ti ho amata da subito. Se… se ci fossimo incontrati prima, non è il nostro tempo questo.”
Piangeva, piangeva come un bambino.
Era quasi imbarazzante vederlo piangere, così grande e possente. Come un enorme gatto scuro. Che piangeva con le mani sul cruscotto, che tremavano come le mie, il volto nascosto in esse.
“Perdonami. Ti prego, perdonami. Se tutto fosse diverso, io resterei con te. Mi farei guidare da te, dalla tua forza, da quello che ho visto in te e che mi ha così colpito. Ma non posso… io non posso lasciarla. Non adesso. Non più.”
Si spostò dal cruscotto, e cadde sulle mie gambe. Si stringeva a me, e singhiozzava. Ed io con lui.

Il giorno dopo sarebbe partito. Non mi chiese niente. Solo di perdonarlo.
Io restai alla finestra della mia camera, a guardare le stelle. Poi guardai anche l’alba arrivare.
Era rasserenante.
Quella notte capii molte cose.
Avevo sempre avuto paura di diventare un’insulsa ragazzetta senza idee, ma io non potevo essere questo. Avevo troppo interesse per le cose che mi circondavano, per abbandonare la mia capacità di pensare.
Avevo paura di perdere me stessa, di guardarmi allo specchio e non riconoscermi, ma crescere non significava anche cambiare? Io avevo annullato tutti i possibili cambiamenti, forse per paura di diventare una persona che non mi piacesse? Avevo paura di odiarmi?
E non era odio quello che provavo in quel momento? Odio verso me stessa, che non riuscivo ad affrontare quella situazione. Troppo inesperta per amare, troppo inadatta al dolore.
Chi diceva che quella ragazza che piangeva aggrappata al lavello, non ero io?
Io ero la bambina che faceva a botte, ero la ragazza che parlava di calcio e politica, ero quella odiata dagli altri, ero quella imbarazzata dentro un pantalone troppo attillato, ero quella che piangeva aggrappata ad un lavello, ero quella innamorata di un uomo che non poteva avere.
Ero io. Nient’altro che io.

Il pomeriggio dopo andai in stazione. Non ci misi molto a trovarlo. Si distingueva tra la folla, con la sua altezza imponente e il suo viso perfetto.
Mi sorrise, da lontano, ed io gli corsi incontro. Come una bambina.
Mi abbracciò forte, stringendo la mia testa al suo largo petto. Rassicurante.
“Grazie, grazie”, continuava a ripetere fra i singhiozzi.
“Io… non lo so se posso perdonarti per avermi mentito. Ma posso ringraziarti per avermi fatto vivere”
Restammo abbracciati finché non arrivò il suo treno.
Quando stava ormai per ripartire, si staccò da me e mi prese il viso fra le sue mani. Erano grandi, come le ricordavo. Chiusi gli occhi, assaporai il suo profumo, la sensazione della sua pelle sulla mia. Ricordai di quella sera, quando mi aveva preso all’improvviso il viso fra le mani, baciandomi con foga.
Non mi stava ancora baciando, l’avrebbe fatto, ne ero sicura. Mi teneva il viso fermo, le nostre fronti a toccarsi. I nostri occhi chiusi, non una parola. Solo i suoi singhiozzi.
“Vorrei… vorrei restare…”
“Devi andare invece. Devi lottare con lei. Devi lottare per tuo figlio. Sii forte”
Sentii le mie parole come se non fossi io a pronunciarle. Lo stavo perdonando, l’avevo già perdonato. Lui non era mio, non lo era mai stato. Ma questo non mi impediva di amarlo totalmente, chiedendo al cielo solo la sua felicità.
“Troverai l’uomo per te, troverai la persona che ti amerà senza farti soffrire. Che ti amerà come ti ho amato io in questi giorni. Ma non sarà un codardo come me, sarà quello giusto”
E poi mi baciò, togliendomi il respiro.
Piano, con dolcezza. Non c’era più bramosia, rabbia, desiderio.
C’era solo amore in quel bacio, c’era un addio intriso di dolore. C’era un addio adulto e consapevole.
C’eravamo noi, io e lui, totalmente racchiusi in quel gesto che ci separava.
Prese quel treno, guardandomi oltre i vetri.
Ed io mi girai, camminando verso l’uscita. Senza più guardare indietro.
Salutavo il grande amore della mia vita. Il primo grande amore.
Quello che si era portato via la verginità dei miei sentimenti.
Quello che mi aveva fatto capire che io… ero io. Che non potevo essere nient’altro.
Una principessa con gli occhiali.


FINE

 
Top
Corinne - Tizy
view post Posted on 28/1/2009, 00:06




Era da un paio di giorni che questa storia mi occhieggiava ogni volta che venivo sul forum. Onestamente non so da quanto l'hai messa, io l'ho notata solo ora. Sarà che ultimamente se venivo sul forum era solo per lasciare tristi comunicati e quindi non facevo neanche caso a cosa c'era postato, ma negli ultimi due giorni come ti ho detto la tua storia mi balzava all'occhio, sentivo che voleva essere letta.
Stasera finalmente (anche se a tarda ora come vedrai) la tentazione di leggerla è stata più forte di tutto. Del poco tempo, della poca voglia di perdermi dentro le parole scritte da qualcuno quando già ero persa dietro ad altri pensieri, e della mia pigrizia (se devo essere onesta ci devo mettere anche quello).
E come al solito non mi hai delusa.
Non so quanto della tua storia sia autobiografico o se è tutta inventata di sana pianta, ma io l'ho sentita interamente vera.
In alcune parti ci ho rivisto me, anche mia madre aveva un tumore al pancreas, ed anche mia figlia. Lei come la protagonista della storia tende ad essere interessata a quei ragazzi che la filano di meno, proprio perchè stuzzicano la sua curiosità, la sua voglia di conoscere più che di farsi conoscere.
Ed ho ritrovato anche tanti pensieri che spesso mi passano per la mente, e che mi fanno spesso riflettere su cosa sia giusto o sbagliato.
Insomma, nella tua storia mi ci sono sentita dentro, come se quanto narravi mi appartenesse in un certo qual modo.
E non rimpiango assolutamente di averla letta anche se qualche lacrima me l'ha strappata.
Non ho altro da dirti se non grazie. Grazie per aver messo qui questa stupenda storia. Te ne sarò debitrice per sempre.
Con un immenso affetto


Zietta Corinne.
 
Top
1 replies since 19/6/2008, 16:40   415 views
  Share